Era il 3 agosto del 1492 quando Cristoforo Colombo salpò dal porto di Palos in Spagna alla volta delle Indie, in un viaggio avventuroso ed incredi
Era il 3 agosto del 1492 quando Cristoforo Colombo salpò dal porto di Palos in Spagna alla volta delle Indie, in un viaggio avventuroso ed incredibile che lo portò ad approdare, a sua insaputa, in un continente fino ad allora ancora sconosciuto in Europa.
Vi chiederete: cosa mai può avere a che fare Colombo con Manfredonia? Ciò che mi affascina della storia è che insegna che non siamo isole, ma siamo tutti uniti da un filo invisibile, incastonati in quel continuum spazio-temporale di cui ci ha dato un saggio Robert Zemeckis nella fantastica trilogia di ‘Ritorno al futuro’.
Orbene, seppur il viaggio di Colombo non cambiò il corso degli eventi a Manfredonia, ne trasformò per sempre il paesaggio. Fu, infatti, proprio l’intraprendente ammiraglio al ritorno dal suo viaggio a portare nel ‘vecchio’ continente quella strana pianta che egli stesso, convinto di essere stato in India, appellò col nome di Opuntia ficus-indica, meglio conosciuto come fico d’india.
La coltivazione dei fichi d’india era praticata in Sud America già da lungo tempo, in particolare dagli Aztechi che li scelsero come emblema della loro capitale, Tenochtitlán. In Europa, invece, era una pianta del tutto sconosciuta. La sua affermazione in tutto il Mediterraneo e nei paesi dai climi temperati si deve ai marinai che da Colombo in poi trasportarono le piante sulle navi utilizzandone i suoi frutti, ricchi di vitamina C, come efficace rimedio per lo scorbuto, un vero e proprio flagello dei naviganti di tutto il mondo che ne provocava la morte in misura addirittura maggiore rispetto ai naufragi o ai combattimenti navali.
I marinai di Manfredonia ne hanno fatto un uso elevato proprio per evitare guai alle articolazioni e soprattutto come antireumatico. Grazie al microclima del golfo sipontino, in nessun’altra parte del Gargano il fico d’india, pianta arido-resistente, si è diffuso come a Manfredonia, dove è divenuto anche un elemento ricorrente nelle rappresentazioni letterarie e iconografiche della città, fino a diventarne in un certo qual modo il simbolo.
Numerosi sono gli scrittori e poeti in visita o di passaggio a Manfredonia tra Ottocento e Novecento che rimasero letteralmente affascinati dalle distese verdi di fichi d’india (o fichidindia) che si sviluppavano a perdita d’occhio nelle campagne, ma che arrivavano anche ad intrufolarsi tra le abitazioni e a cingere persino le mura e le antiche torri della città. Lo stesso Giuseppe Ungaretti, nel suo ‘Il deserto e dopo le Puglie’ descrive la sorpresa di trovarsi dinanzi “una selva di fichidindia” così estesa da togliere il respiro a chi l’osserva.
I fichi d’india sono i frutti estivi più succulenti della mia infanzia, quando mio padre armato di guanti e secchio andava a farne incetta tra le campagne e poi con amore e cura li ripuliva dalla buccia spinosa per farli gustare a me e a miei fratelli. Inevitabilmente si riempiva di spine e mentre con la pinzetta cercava di liberarsene, brontolava che mai più li avrebbe raccolti e che molto più semplice era acquistarli belli e pronti dai tanti che li vendevano lungo i marciapiedi. Ma l’estate successiva troppo forte era la sfida che quei frutti rossi e carnosi gli lanciavano, e partiva alla loro conquista come un guerriero, salvo ricominciare con gli stessi identici brontolii di ogni anno mentre noi ci tuffavamo sui fichi d’india e lui si liberava dalle fastidiose spine.
Queste piante sono così intrecciate alla storia sipontina che le cronache narrano che durante la prima guerra mondiale salvarono Manfredonia da un bombardamento, in quanto gli austriaci avevano scambiato le pale della pianta per i caschi dei militari italiani. In tempo di carestia, essi erano una preziosa fonte di cibo. I fichi d’india fanno parte di buon diritto anche della tradizione culinaria sipontina, in quanto oltre ad essere mangiati freschi, vengono utilizzati per preparare marmellate ed un particolare tipo di vino cotto, ingrediente di alcuni tipi di dolciumi.
Dunque, queste piante che siamo abituati a vedere da sempre, nascondono nei loro frutti odori e sapori di un lontano continente e sono il dono di un navigatore genovese che, oltre 500 anni fa, contribuì a cambiare la storia del mondo… e il paesaggio di Manfredonia.
Maria Teresa Valente
COMMENTI