’ ’ 47 ISOLA Celeste, Isola Blu, Isola Turchese, Mare Equatoriale: a dispetto dei nomi che richiamano scenari
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ISOLA Celeste, Isola Blu, Isola Turchese, Mare Equatoriale: a dispetto dei nomi che richiamano scenari paradisiaci, sono quattro navi cisterne cariche di “Sali sodici”, uno dei reflui residui delle produzioni di fertilizzanti e di caprolattame (base per la produzione di Nylon) che si effettuavano nello stabilimento “Anic” poi divenuto Enichem, costruito dall’ENI all’inizio degli anni 70, sul confine tra Manfredonia e Monte Sant’Angelo.
QUELLA delle quattro motocisterne e del loro carico tossico, è una delle vicende che hanno determinato la fase discendente dello stabilimento petrochimico. Quei reflui venivano trasportati via mare e scaricati in una profonda fossa marina dinanzi all’Africa. Un traffico che venne bloccato dal pretore di Otranto, Ennio Cillo, che aveva attribuito a quei reflui la moria di delfini su quel litorale. Una eventualità che venne smentita a seguito di un agguerrito dibattimento nel processo tenutosi a Lecce: lo stabilimento di Manfredonia venne scagionato e dissequestrati gli scarichi dei reflui dello stabilimento.
RIMANEVANO quelle quatto navi cisterna cariche di complessive cinquanta tonnellate di Sali sodici destinate in Sardegna, ma furono bloccate, poste sotto sequestro dal pretore di Manfredonia, Alessandro Galli, in quanto costituivano stoccaggi provvisori privi di autorizzazione. Quelle quattro motocisterne rimasero alla fonda nella rada delimitata dal porto industriale e il molo di levante del porto storico, per alcuni mesi. Una situazione alquanto delicata e pericolosa. Le competenti autorità rilevarono che i Sali sodici corrodevano le strutture delle navi col pericolo reale che potessero cedere e provocare la fuoriuscita di quel reflui e inquinare il mare del golfo. Vennero pertanto autorizzate a partire.
ANCHE quelle navi entrarono a far parte dei motivi della lotta cha la popolazione di Manfredonia avviò contro quello che da stabilimento che per un ventennio procurò benessere ad un vasto comprensorio occupando un paio di migliaia di lavoratori (diretti e indotti) e distribuendo sul territorio oltre sessanta miliardi di lire tra stipendi e acquisti di beni e servizi, era diventato un “mostro” del quale si chiedeva la chiusura e lo smantellamento. Cosa che avvenne dopo non poche peripezie tecniche e legali.
CASUS belli fu lo scoppio della colonna di lavaggio dell’impianto urea (il fertilizzante prodotto) avvenuto la domenica del 26 di settembre 1976, dalla quale fuoriuscirono alcune tonnellate di arsenico, un veleno del quale la scienza conosceva poco o niente sugli effetti sulla natura e sulle persone. Prese le mosse una storia complessa, intricata, nebulosa, non del tutto chiarita anche nelle sue modalità di recupero di quell’area divenuta SIN nazionale e sottoposta a bonifica per alcuni aspetti in itinere.
IL COORDINAMENTO cittadino “Salute e Ambiente”, per la ricorrenza di quella data, ha predisposto una serie di incontri per una ricognizione dello stato dell’arte della bonifica, per le opportune riflessioni a 47 ani di distanza dall’evento, e quindi i riflessi sulla salute pubblica, l’economia, la memoria. Le attività sono previste per il 26 (Auditorium “Toniolo” e Sala consiliare del Comune), il 29 (Sala Vailati) e il 30 (Sala consiliare comunale):
Michele Apollonio
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