Strage di via d’Amelio, la mafia ‘condanna a morte’ anche Paolo Borsellino

19 Luglio 1992, domenica mattina. Mentre l’Italia stava ancora piangendo per la morte di Giovanni Falcone, della moglie del giudice Francesca Morvillo

Atto incendiario contro auto poliziotto
MANFREDONIA, NATALE NEL BENE E NEL MALE: DA BITORZOLUTI CONCETTI DEGLI INETTI DISTRUTTORI
In fiamme autobus con pellegrini a bordo diretti da san Pio

19 Luglio 1992, domenica mattina. Mentre l’Italia stava ancora piangendo per la morte di Giovanni Falcone, della moglie del giudice Francesca Morvillo e degli uomini della sua scorta, saltati in aria a Capaci per volere di Cosa Nostra, un’altra strage si è consumata in via d’Amelio, all’altezza del civico numero 21. Paolo Borsellino stava andando a trovare la mamma Maria Pia Lepanto, come faceva ogni domenica, quando una Fiat 126 rubata, imbottita di esplosivo, è saltata in aria. Erano le 16.58, quando la strada nel cuore di Palermo si è trasformata in un inferno. Auto bruciate, fumo, fiamme, gente che urla chiedendo aiuto e sangue ovunque. Le immagini, come quelle dell’autostrada, sono rimaste impresse negli occhi di tutti. Impossibile dimenticare cosa accadde sotto il sole cocente di luglio, in una Palermo quasi deserta.

Insieme al giudice antimafia persero la vita gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna della Polizia a morire in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Nessuno ha avuto scampo tranne Antonino Vullo, l’unico sopravvissuto, che non ha mai considerato “una fortuna” essere scampato all’orrore. Perché i ricordi di quel pomeriggio sono ancora tutti lì, uno in fila all’altro.

57 giorni

Borsellino sapeva che avrebbe fatto la stessa fine del suo collega, a cui era legato da una profonda amicizia. “Ora tocca a me” diceva, mentre nelle ultime interviste si definiva “un condannato a morte”. Anche alla moglie Agnese aveva confidato: «Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri».. Cinquantasette giorni separano i due attentati che hanno cambiato la storia del Paese.

Se della strage di Capaci si conoscono dinamica e mandanti, su quella di via D’Amelio ricordato come restano molti misteri.

Le confidenze di Riina in Carcere

Dalle intercettazioni delle conversazioni in carcere di Totò Riina con Alberto Lo Russo emergerebbe che il telecomando usato per la strage in cui perse la vita Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta sarebbe stato nascosto nel citofono dell’abitazione della madre del giudice. Quindi, secondo il boss, fu lo stesso Paolo Borsellino ad azionare la bomba che lo uccise.

L’ultima, sconcertante, rivelazione del capo di Cosa Nostra, emersa durante le conversazioni intercettate in carcere durante l’ora d’aria con il boss pugliese Alberto Lorusso, getta nuove ombre sulla strage di via D’Amelio.

Nessun pentito ha mai chiarito, finora, chi abbia azionato il telecomando usato per l’eccidio di luglio. Non sapevano realmente chi avesse premuto il pulsante o davvero le cose stanno come le ha raccontate Riina?

L’agenda rossa

Uno dei misteri della strage è quello della scomparsa dell’agenda rossa da cui Borsellino non si separava mai. Si dice che all’interno, il magistrato aveva appuntato i nomi dei mandanti eccellenti e dei politici collusi, i segreti delle stragi e l’indicazione dei soggetti istituzionali responsabili della «trattativa» Stato-mafia.  Non fu mai ritrovata, eppure un vecchio filmato dei vigili del fuoco del giorno della strage, quel maledetto pomeriggio del 19 luglio del 1992, dimostra che era lì, per terra, accanto al corpo senza vita del magistrato. La borsa del giudice fu ritrovata sul sedile posteriore della macchina blindata, ma al suo interno l’agenda rossa non c’era. Che fine ha fatto?

In una sentenza depositata il 30 giugno 2018 la Corte d’Assise di Caltanissetta ha definito l’omicidio di Borsellino «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana». La verità è ancora lontana.

L’amicizia con Falcone

Si racconta che, una sera, Paolo Borsellino disse a Giovanni Falcone queste parole: «Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa dopo la tua morte: ”Ci sono tante teste di minchia: teste di minchia che sognano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello… quelle che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero… ma oggi signori e signore davanti a voi, in questa bara di mogano costosissima, c’è il più testa di minchia di tutti… Uno che aveva sognato niente di meno di sconfiggere la mafia applicando la legge». L’Italia avrebbe ancora bisogno di certe “teste di minchia”, dietro cui si nascondono uomini coraggiosi.

COMMENTI

WORDPRESS: 0