Il «no» dei vertici pugliesi della Cia (Confederazione italiana agricoltura) alla decisione del Governo di prorogare l’istituzione di «Granaio d’Itali
Il «no» dei vertici pugliesi della Cia (Confederazione italiana agricoltura) alla decisione del Governo di prorogare l’istituzione di «Granaio d’Italia» e del relativo Registro telematico dei cereali pugliese al 2025, è secco. Un «no» che ieri è stato confermato nel corso di un incontro con gli agricoltori. Lo scopo è stato quello di lanciare una petizione popolare e la campagna nazionale per «Salvare il grano italiano» dalla bolla speculativa che, in 10 mesi, ha segnato un tracollo del valore riconosciuto al frumento duro con un calo record di 220 euro a tonnellata, un decremento del 45 per cento. Chiamati all’appello anche tutti i parlamentari pugliesi: a occupare le prime file Marco Lacarra e Ubaldo Pagano per il Partito democratico e Gisella Naturale, Gianmauro Dell’Olio e Giorgio Lovecchio per il Movimento 5 stelle.
Assenti, invece, i parlamentari dell’opposizione. All’incontro è intervenuto – con collegamento in remoto – anche Donato Pentassuglia, assessore regionale all’Agricoltura, che ha annunciato il suo sostegno alla petizione e che sarà lui stesso a sottoporla all’attenzione della conferenza dei capigruppo e all’intero esecutivo della Regione Puglia.
«Ai trasformatori e alla grande industria – ha spiegato Gennaro Sicolo, presidente di Cia Puglia e vicepresidente nazionale di Cia Agricoltori Italiani – il grano importato costa molto meno di quello italiano. C’è una domanda che dobbiamo farci, in proposito: quanto costa quel grano estero, in termini di salute, ai consumatori italiani convinti di mangiare pane e pasta 100% “made in Italy”?».
«Diamo ai consumatori la possibilità di scegliere», ha aggiunto, «dando loro un’informazione chiara, ineccepibile, trasparente sulla provenienza dei grani utilizzati per produrre il pane e la pasta». La preoccupazione della Cia, e quindi di molti agricoltori, è presto spiegata: in 10 mesi, il valore riconosciuto alle imprese cerealicole per il loro grano è sceso, ma i costi per seminare, coltivare e poi raccogliere il grano – su un ettaro di terreno – sono passati dagli 878 euro del 2020 ai 1.402 del 2022.
Secondo la Confederazione, parte del fabbisogno dell’industria della pasta arriva dall’estero e la produzione italiana non riuscirebbe comunque a coprire il 100% della domanda, ma è giusto che sia fatta una differenza. Una differenza che sia percepibile chiaramente anche dai consumatori, in termini di qualità, salubrità e di standard di sicurezza alimentare, garantiti dal grano italiano.«Per questo motivo – hanno evidenziato nel corso dell’incontro – col pieno sostegno dei livelli nazionali dell’organizzazione, torniamo a chiedere con forza che il Governo faccia marcia indietro sulla proroga con cui è slittata al 2025 l’attivazione di “Granaio Italia”, un insieme di misure poste a tutela del grano italiano e dei consumatori italiani. La Puglia è la prima produttrice italiana di grano duro, con una media che negli ultimi anni si è attestata attorno ai 9,5 milioni di quintali annui, il 30 per cento dell’intera produzione nazionale. L’80% in provincia di Foggia, la parte restante trova dimora soprattutto nel Barese e nella BAT. Il rischio è che, progressivamente, come sta già accadendo, diminuiscano le superfici coltivate e la produzione, lasciando sempre più spazio alla dipendenza dall’estero dell’intera filiera del made in Italy. Soprattutto per i prodotti trasformati come pane e pasta». «È un rischio – hanno concluso – che dovrebbe mettere tutti in allarme, perché stiamo parlando di qualità e salubrità, di benessere e salute per i consumatori».
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