Giornata nazionale vittime Covid: «Io in Puglia e le mie sorelle a Codogno: così affrontavamo la paura»

 Dal caso «zero» scoperto a Codogno il 21 febbraio 2020 con focolaio a Vo’ Euganeo sono passati poco più di 3 anni, eppure sembra un’eternità. In quei

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 Dal caso «zero» scoperto a Codogno il 21 febbraio 2020 con focolaio a Vo’ Euganeo sono passati poco più di 3 anni, eppure sembra un’eternità. In quei mesi c’era un filo che legava quel simbolo a Giovinazzo. Passava per Maria Grazia Pellettieri, originaria di Codogno, che si è stabilita nella città adriatica poco più di tre anni fa, appena prima che il mondo crollasse nella pandemia. Ha seguito il marito. A Codogno sono no rimaste le altre due sorelle di Maria Grazia che hanno visto l’inferno con i propri occhi.

Giornata nazionale vittime Covid: «Io in Puglia e le mie sorelle a Codogno: così affrontavamo la paura»

A Codogno è stato peggio che altrove?

«Non lo so. Ma non credo. Semplicemente io ho cominciato a fare i conti con l’ansia e la paura un po’ prima ma poi siamo stati tutti sulla stessa barca in quanto a sentimenti. Per quanto riguarda i numeri invece c’è chi ha dovuto fare la conta dei propri cari».

Anche lei?

«Non nella mia famiglia per fortuna, anche se il covid se lo sono beccato anche loro. Mia sorella di certo ma ancora non lo sapevamo. Ma il suocero di mia sorella è morto per complicanze dovute al virus e anche alcuni amici di vecchia data: quando sentivo mia sorella facevamo l’elenco per sapere come stessero le persone. Una brutta cosa».

Di fronte a tragedie simili ci si sente impotenti e la lontananza acuisce la paura.

«Molto prima che si scoprisse che si trattava del virus che conosciamo oggi, mia sorella mi raccontava di non sentirsi bene, di avere la tosse da giorni e di averla curata per tanto tempo, invano. Non ci siamo allarmati perché nell’ignoranza del contesto abbiamo tutti creduto che fosse un’influenza più forte del solito. Una situazione che però ha cominciato a diffondersi, pure tra i nostri conoscenti e amici. A distanza di settimane, a fine dicembre 2019, abbiamo capito che c’era qualcosa che non andava e poi a febbraio siamo diventati tutti “pazienti zero”».

Come è stato gestire la lontananza?

«Una routine giornaliera. Quanto meno ci sentivamo spesso via telefono o con le videochiamate: spesso avevamo notizie che qui avremmo sentito in tv il giorno dopo. La chiusura dei comuni per esempio. Lì dopo qualche giorno era già diventata una cattedrale nel deserto e in giro c’erano solo militari. Le regole erano strettissime e non si faceva sconto a nessuno se trovato in giro senza la certificazione in tasca. Mia madre aveva deciso di venire a vivere a Giovinazzo e quando ha saputo tutto voleva tornare dalle mie sorelle anche per dare una mano, per sostenerle. Non riusciva a capire che ormai i confini erano chiusi. Lei è anziana, pensare ai figli in difficoltà senza poter dare una mano è un doppio strazio. Insomma il primo pensiero la mattina era: beh, sentiamo che si dice oggi».

Una piccola luce nel buio?

«Ci siamo scambiate tante ricette di cucina. Confrontate sui tempi di cottura di certe pietanze… le poche telefonate leggere. Dovevamo trovare un modo per fermare la paura».

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