Addio a Joseph Ratzinger, che resterà nella storia moderna come il papa della rinuncia. Nell’Antico Testamento persino la Creazione ha bisogno della p
Addio a Joseph Ratzinger, che resterà nella storia moderna come il papa della rinuncia. Nell’Antico Testamento persino la Creazione ha bisogno della pausa, della requie: «E il settimo si riposò». Un altro passaggio biblico, la celebre anafora dell’Ecclesiaste , ammonisce: «C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante…». Papa Benedetto XVI con le sue dimissioni dell’11 febbraio 2013 decretò in latino che c’è un tempo per riconoscersi deboli, finanche quando si è «infallibili» in forza di un dogma. Umano, troppo umano.
Il teologo Ratzinger otto anni prima aveva voluto assumere un nome pontificio nel segno europeista e pacifista di Benedetto XV, tenace oppositore del primo conflitto mondiale che aprì il ‘900 «secolo breve». Con il senno di poi, l’appellattivo benedettino evoca il monachesimo di Celestino V, la cui abdicazione del 1294 è tramandata dal verso dell’Inferno in spregio di «colui che fece per viltade il gran rifiuto». Sebbene Dante non nomini Celestino e Petrarca ascriva il gesto a lode di «uno spirito libero e altissimo».
Già al momento dell’elezione Ratzinger così si rivolse ai fedeli in piazza San Pietro: «Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare e agire anche con strumenti insufficienti». Un’«umiltà» che si fa evidenza nel 2013: è desiderio di silenzio, di ritorno agli amati studi e alla preghiera. Più cielo, meno terra. Più mistero, meno potere. Un «abbandono», certo, ma nel significato proprio della mistica: l’animo si vota a Dio e ne accetta le volontà nascoste o in fieri.
D’altronde, nonostante le inevitabili dietrologie dell’epoca (mai placatesi in questi anni nonostante gli incontri tra papa Francesco e il suo predecessore), le ragioni del gesto – un gesto enorme – furono esplicite e chiarissime nel testo di Ratzinger: «Sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino… Nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo. Vigore che in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato».
Si parlò di irruzione della modernità nelle stanze vaticane. Mentre Giancarlo Bosetti – direttore della rivista «Reset» che ospitò il dialogo filosofico su ragione e fede tra Habermas e Ratzinger – nel «gesto di coraggio» del papa vide in filigrana una sfiducia verso i mass media in cui invece aveva primeggiato Wojtyla. Insomma, il rifiuto di Benedetto XVI di esporsi malato e agonico alla platea del villaggio globale.
Ma l’epilogo di Ratzinger, da allora serratosi nei suoi studi e nella preghiera, serba un che di profetico: un richiamo arcaico e un presagio di futuro. La modernità è infatti per definizione smodata, «faustiana», delirante di onnipotenza, aperta al molteplice e al possibile fino all’irrealtà. In Benedetto XVI vibra invece la corda del riconoscimento del limite. C’è in lui la scelta di assumere la vita «pericolosa e miserabile della maggior parte» di cui scrisse Albert Camus: «Prenderò la Chiesa sul serio quando i suoi capi parleranno la lingua di tutti». Più che mai, oggi che ci lascia, habemus papam.
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