9 agosto 2017. Quattro anni fa la strage di mafia davanti alla vecchia stazione di San Marco in Lamis. Tre killer incappucciati e armati di AK47 e fuc
9 agosto 2017. Quattro anni fa la strage di mafia davanti alla vecchia stazione di San Marco in Lamis. Tre killer incappucciati e armati di AK47 e fucili uccisero il boss di Manfredonia, Mario Luciano Romito, suo cognato Matteo De Palma e i contadini Aurelio e Luigi Luciani, gli ultimi tre estranei a contesti criminali. Una mattanza che, dopo decenni, accese i riflettori dello Stato sulla provincia di Foggia, terra piegata dalla criminalità organizzata, macchiata dagli omicidi e svilita dal narcotraffico. Un angolo d’Italia dove sono stati sciolti per mafia cinque comuni in sei anni, Monte Sant’Angelo, Mattinata, Cerignola, Manfredonia e, infine, Foggia, secondo capoluogo di provincia in Italia colpito dal provvedimento governativo dopo Reggio Calabria.
Oggi a San Marco in Lamis è il giorno del ricordo. Atteso anche il carismatico don Luigi Ciotti, leader dell’associazione antimafia “Libera”. Prevista una commemorazione per ricordare i fratelli Luciani, secondo gli inquirenti testimoni innocenti di quella strage.
Ma a quattro anni di distanza, a che punto sono le indagini? Il 30 novembre 2020 la Corte d’Assise del Tribunale di Foggia ha inflitto l’ergastolo al presunto basista, il 40enne manfredoniano Giovanni Caterino detto “Giuann Popò”, uomo del clan Li Bergolis-Miucci-Lombardone che avrebbe studiato le mosse di Romito e preparato il campo ai suoi assassini. Caterino, a bordo di una Fiat Grande Punto, avrebbe pedinato il maggiolone nero di Romito che quel giorno stava andando a San Marco per un appuntamento ancora avvolto nel mistero, forse con un noto pregiudicato della zona. “Popò” avrebbe inseguito l’auto del boss fino a pochi chilometri dalla strage, per poi fare largo alla Ford C-Max dei killer. Una scarica di proiettili non diede scampo alle vittime, compresi i fratelli Luciani che viaggiavano in un Fiorino bianco.
Gli inquirenti arrivarono a Caterino dai filmati delle telecamere della videosorveglianza installate all’uscita di Manfredonia. L’auto, riconducibile al 47enne Giuseppe Bergantino, venne spesso intercettata presso l’autorimessa Manzella di Manfredonia (dove sono state registrate numerose intercettazioni) e nella masseria Scola, frequentata assiduamente da Angelo Tarantino, esponente della nota famiglia criminale di San Nicandro Garganico. Proprio quella masseria, situata a poche centinaia di metri dal luogo dell’agguato, fu raggiunta a piedi dai killer che prima incendiarono la C-Max, rimasta con una gomma a terra durante la sparatoria, e poi si diedero alla fuga.
Nelle settimane successive alla strage, grazie a telecamere nascoste, gli inquirenti ripresero lo stesso Tarantino in compagnia di Caterino.
Al momento il presunto basista è rinchiuso nel carcere di Bari, si è sempre rifiutato di collaborare con la giustizia e ha già presentato ricorso in Appello che sarà discusso a novembre. Nel frattempo, si indaga per risalire a killer e mandanti. Occhi puntati sul gruppo montanaro Li Bergolis-Miucci-Lombardone, guidato dal boss reggente Enzo Miucci detto “U’ criatur”, cugino dei fratelli Li Bergolis (tutti dentro a scontare lunghe condanne) e nipote del patriarca Ciccillo Li Bergolis, ucciso nel 2009 nell’ambito della vecchia faida di Monte Sant’Angelo.
Dall’inchiesta è emerso che il giorno della strage, Matteo Lombardi detto “Lombardone” provò più volte a contattare al telefono Angelo Tarantino, anche nei minuti dell’agguato. Perché tutta quella insistenza? Lombardi è un nome noto alle cronache, fu infatti tra i protagonisti del summit mafioso del 2 dicembre 2003 quando nella masseria Orti Frenti di San Giovanni Rotondo, i carabinieri – su indicazione di Mario e Franco Romito – piazzarono cimici per registrare le conversazioni tra lo stesso Lombardi e i fratelli Li Bergolis, presenti all’incontro per un chiarimento. Intercettazioni che costarono la galera a Lombardi, il quale ammise di aver ucciso Michele “Mangiafave” Santoro, uomo di fiducia dei Li Bergolis. Nonostante si sia sempre professato innocente, Lombardi scontò 14 anni con l’abbreviato ma non gli venne riconosciuta l’aggravante della mafiosità; secondo i giudici, infatti, Lombardi avrebbe agito perché aveva scoperto che Mangiafave era intenzionato ad uccidere suo figlio.
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