"Siamo ribelli ma non scemi, togliere una parolaccia non cambia il significato della canzone". I Maneskin, trionfatori a Sanremo 2021 con Zitti e buon
“Siamo ribelli ma non scemi, togliere una parolaccia non cambia il significato della canzone”. I Maneskin, trionfatori a Sanremo 2021 con Zitti e buoni, modificano il testo della canzone per partecipare all’Eurovision. Al Festival, nel testo erano presenti ‘coglioni’ e ‘cazzo’.
“Non ci ha fatto piacere cambiare il testo per partecipare all’Eurovision, ma c’è una questione di buon senso: abbiamo pensato che era meglio cancellare una parolaccia, che lascia il tempo che trova, pur di fare una cosa così importante. Siamo ribelli ma non scemi, togliere una parolaccia non cambia il significato della canzone, ma c’è un regolamento e sarebbe stato sciocco farsi eliminare dal contest”, dice Damiano David, voce del gruppo, parlando del brano che è già certificato disco d’oro e che rappresenterà l’Italia all’Eurovision song context. L’occasione per la riflessione arriva durante la presentazione del nuovo album ‘Teatro d’ira – Vol.I’ in uscita il prossimo 19 marzo. “Anche la foto in cui mi tocco le parti intime – aggiunge – è stata cancellata da Instagram e anche questa non è fondamentale, è inutile toglierla e poi ripostarla, anche perché con Instagram un po’ ci lavoriamo”.
Scritto interamente dai Maneskin, il nuovo album è stato registrato tutto in presa diretta al Mulino Recording Studio di Acquapendente – luogo da cui hanno presentato l’album con un minilive – rimandando alle atmosfere analogiche dei bootleg anni ’70, con l’idea e la voglia di ricreare la dimensione live vissuta dal gruppo nel loro primo lungo tour di 70 date fra Italia e Europa. Un disco tutto suonato, crudo, contemporaneo, capace di rappresentare lo stile e il sound della band. La band salirà, con ‘Teatro d’Ira – Vol. I’, per la prima volta sui palchi dei più importanti palazzetti italiani, in un tour di 11 date, alcune delle quali sono già sold-out.
Il teatro, metafora in contrasto con l’ira del titolo dell’album, diventa lo scenario in cui questa prende forma. “La nostra non è una rabbia nei confronti di qualcuno, ma un’ira che smuove, che crea le rivoluzioni – raccontano i Maneskin – un’ira rivolta alle oppressioni e agli oppressori, che porta a sfogarsi e a ribellarsi verso tutto ciò che ti fa sentire sbagliato e che, come risultato, porta a una rinascita e a un cambiamento. Abbiamo voluto collocare questa forza molto potente in un contesto, quello del teatro, che nell’immaginario comune viene percepito come elegante e pacato. Ci piace questa antitesi: un contrasto che vive nel momento in cui il sipario si apre e, al posto di uno spettacolo o di un balletto, ci si ritrova catapultati in questa esplosione di energia. Il teatro è una metafora, il luogo dove questo impulso potente genera qualcosa di artistico e positivo”.
“La nostra è un’ira catartica – afferma Damiano David – Noi mettiamo nella musica ciò che ci succede, la rabbia è un sentimento umano che provano tutti e anziché reprimerlo lo incalaniamo nella musica. Nel brano ‘In nome del padre’ ci riferiamo a chi dice che non siamo rock, ma anche a quelli che non credevano in noi, che ci dicevano che dovevamo fare altro. E’ un testo contro i limiti e le barriere che hanno provato a metterci davanti. ‘Lividi sui gomiti’ parla invece di ciò che c’è dietro al nostro lavoro, dei nostri sacrifici e della disciplina. Parliamo attraverso la musica ed esprimiamo questo con la musica. ‘Coraline’ non è riferito al film, la scelta del nome è puramente fonetica, la storia è reale ma raccontata in forma di favola. Non parla del cavaliere che salva la principessa, ma è una storia che finisce male, parla dell’appassimento di un fiore e del cavaliere che ne è lo spettatore”.
Campeggia la libertà dalle sovrastrutture e dai filtri inutili, nel nuovo album dei Maneskin, unita al desiderio di essere autentici. Un appello che il gruppo rivolge fin dal primo singolo ‘Vent’anni’ (certificato platino) alla Generazione Z, ma che si allarga a tutto il pubblico: un invito a scrollarsi di dosso etichette preconfezionate per vivere appieno ed essere se stessi, senza paura del giudizio. “Non so se siamo una rock band – dice Victoria De Angelis – Di certo non vogliamo incasellarci in una determinata categoria. Non ci sono molti gruppi che. Come noi, suonano con strumenti analogici, ma non ci interessa ciò che dicono di noi, noi facciamo la nostra musica, che vuol dire essere noi stessi”.
“Fare un disco del genere in questo momento… se non è rock questo – aggiunge Damiano David – Abbiamo portato il nostro pezzo a Sanremo, adesso andiamo all’Eurovision, ma che dobbiamo fare, strappare la testa ai pipistrelli? Il pubblico degli esordi è entusiasta del nostro rock e non vede l’ora che ricomincino i live, la nostra generazione si sente sempre rappresentata. Per il pubblico più giovane, non abituato al nostro tipo di musica, invece siamo una novità da scoprire. I ragazzi sono curiosi e sempre più informati. E’ vero: non siamo i Led Zeppelin, ma siamo all’inizio, lasciateci il tempo di arrivarci”.
“Quanto ai testi in inglese – prosegue – pensiamo forse presuntuosamente di essere un progetto valido anche per l’estero, siamo stati cercati da una band di un altro Paese con cui abbiamo fatto un pezzo. Di certo, ‘I wanna be your slave’, che abbiamo scritto a Londra, mi regalerà le prime denunce, ma bisogna andare oltre la crudezza e arrivare al significato, allo schiavo e al padrone, al bravo ragazzo e al gangster: si può benissimo essere le due cose, senza necessariamente scegliere. Il brano parla di sessualità, che ha tante varianti e non va chiusa in scompartimenti”.
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