In questi giorni si ritorna a scuola, e dopo l’accoglienza verrà fatto l’appello. Chiamerò i miei alunni per nome. Vedrò i loro volti anche
In questi giorni si ritorna a scuola, e dopo l’accoglienza verrà fatto l’appello. Chiamerò i miei alunni per nome. Vedrò i loro volti anche se nascosti dalle mascherine. Eppure un fenomeno che da qualche tempo vado sempre più notando riguarda l’usanza, da parte di molti genitori, di non chiamare il proprio figlio per nome, ma con l’appellativo “Amore!” E questo accade non solo verso i più piccoli, ma anche verso quelli più cresciuti.
Anche se l’intenzione è buona, pessime sono le conseguenze, mentre le motivazioni, anche se nascoste, poco convincenti. Non tutti si rendono conto degli effetti devastanti di questa operazione. Anzi, pensando di fare una cosa buona, si ciondolano beatamente nel reiterarla ad ogni stagione della vita. Anche i fidanzatini lo fanno, chiamandosi “Amò!” almeno cento volte al minuto. Mi vado chiedendo che cosa mai stia accadendo, e che cosa si nasconde dietro questa abitudine diventata ormai contagiosa.
Certo, coloro che lo fanno si sentono gratificati, perché, facendolo, pensano di amare il proprio figlio o il proprio partner, e così si sentono anche giustificati e appagati. Quasi scusati se poi non sono all’altezza dell’amore dichiarato. Ma è solo una pura illusione! E ciò per tre motivi.
In primo luogo, perché riducono l’amore a una parola, quando invece l’amore è un percorso lungo e faticoso, non una semplice emozione ma un sentimento di lunga durata che va alimentato nel tempo attraversando diverse prove e molteplici sfide. In secondo luogo, i genitori, timorosi di non dare ai propri figli la giusta sensazione di essere amati, ripetono tale parola svilendola e svuotandola. Anzi, a volte, banalizzandola, correndo così il rischio di ridicolizzarla. In terzo luogo, con l’appellativo “Amore!” si finisce per uccidere proprio ciò di cui l’amore si nutre: e cioè il nome.
Ma il nome non è solo flatus vocis, come sostenevano i nominalisti medievali. Nella Bibbia il nome indica la persona. Purtroppo quelli che lo fanno non sanno che l’atto di nominazione è una sorta di illuminazione. Non sanno che il nome getta luce nel buio dell’anonimato. Provate, infatti, a mettere un bambino in mezzo a tanti altri. Lasciatelo lì per molto tempo. Poi, senza farvi vedere, chiamatelo per nome: lo vedrete esultare e i suoi occhi illuminarsi. E’ come se lo aveste tirato fuori dal nulla! Il nome lo ha salvato da una molteplicità caotica. Grazie al nome il bambino raccoglie le sue cose e torna ala sua storia.
Il nome separa, distingue. Introduce la differenza. Dice chi sono e chi o che cosa non sono. E la distinzione à la molla del pensiero. Hegel la chiamava dialettica. Perciò, chiamare la persona che si ama per nome significa riconoscere la sua unicità. La sua specialità e specificità. Il nome individualizza. Rappresenta una sorta di riserva dove ciascuno può custodire la propria irripetibilità e insostituibilità. La propria inalienabilità. Per tale ragione il Codice civile al l’art. 6 sancisce il diritto ad avere un nome. Grazie al nome possiamo essere individuati e identificati.
Il nome è come uno spazio sacro. Non per nulla, la Bibbia in molti passi attesta che Dio stesso ha pronunciato nella notte della creazione il nome di ciascuno. Come dice il profeta Isaia, Egli ha disegnato il mio nome sul palmo della sua mano. E, per la fine dei tempi, il libro dell’Apocalisse dice che i nostri nomi sono scritti già nel libro sacro della vita, il quale solo al termine della storia sarà aperto. Non solo, è talmente sacro il nome che Dio ha dato all’uomo il potere e la prerogativa di dare il nome alle cose da Lui create. Così, con il gesto della nominazione, l’uomo non fa che riflettere in sé un gesto che di per sé è soltanto di Dio. La nominazione è una atto di divinizzazione. Un atto di elevazione che definirei spirituale.
E questo perché il nome è un evento di alterità, in quanto nominare significa riconoscere l’altro nella sua differenza, accoglierlo in tutta la sua diversità. E poiché l’altro non è assimilabile a me, ecco che con il nome viene rinviato alla sua identità. Per questo la nominazione è un atto di trascendenza. Chiamando per nome il proprio figlio, ogni madre gli conferisce il diritto ad essere distinto da lei. A non essere come lei. Ma diverso da lei e da tutti gli altri. Il diritto a non essere come la madre vorrebbe. Il nome “proprio” del figlio libera il figlio dalla proprietà della madre. Il nome è inappropriabile e ci ricorda che noi non siamo alienabili. In vendita.
Nominare l’altro vuol dire affermare che egli c’è. E’ affermare la sua esistenza al di là d ogni nostra aspettativa o pretesa. Perciò la nominazione è come una seconda nascita. Infatti, con il parto si nasce alla vita, ma poi è necessario nascere una seconda volta: è necessario nascere all’amore, alal socialità, e ciò avviene tramite il conferimento del nome. Dopo il parto, si nasce una seconda volta. E si nasce dalla voce di chi, pronunciando il nostro nome, nella notte della venuta al mondo, ci chiama, ci accoglie e ci raccoglie. Accoglie il nostro grido nella notte della nascita e ci rassicura che siamo di qualcuno. Che siamo legati. E il nome è il segno di questo indelebile legame. Che è sia familiare ma anche sociale. Il nome è questo sigillo sociale che apponiamo ad una nascita avvenuta. E’ la legittimazione sociale di un evento individuale.
Quando si esiste e non si è nominati – cioè non si è chiamati per nome – è come se si scomparisse. Perdere il nome significa diventare invisibili. Misconosciuti. La perdita del nome è la prima forma di abbandono. E’ una perdita non solo di tipo materiale ma simbolica. Invece, sentire il proprio nome è superare la nuda vita, l’immediatezza di una vita che a prima vista pare sia stata gettata. Il nome, scrive Recalcati nel suo ultimo libro “Il gesto di Caino”, trasforma il Caos. Trasfigura la caoticità di una vita persa in una vita ritorvata.
Platone diceva che si esiste per caduta. Ecco allora la funzione del nome: aiutarci a risalire la china del niente, appoggiandoci alla voce di chi ci raccoglie, nominandoci. Per questo, il filosofo Levinas dice che il nome è convocazione. Appello. E’ presa in carico. E’ difesa contro ogni processo di spersonalizzazione. Ogni volta che io chiamo l’altro col suo nome io lo riprendo dal suo nulla possibile. Dalle sue erranze. Dalle sue cadute.
E così il nome ci fa risalire dall’anonimato, ci sottrae all’indifferenziato e all’indeterminato. Per questo, chiamando per nome la persona che amiamo, affermiamo tutto il suo valore, il volume immenso della sua dignità, tutta la sua trascendenza. E di certo non lo nominiamo per dirgli “Tu esisti per me”, né per dirgli “Tu esisti in vista di me”. Ma ”Io esisto per te”. Non gli diciamo che è venuto per noi, ma è venuto per se stesso. Col nome, ogni madre restituisce il proprio figlio a se stesso, alla propria libertà. Alla propria fatica di esistere. Ai suoi viaggi. Alle sue peripezie. E, così facendo, lo impegna a crescere.
Il nome responsabilizza, in quanto pone ogni figlio di fronte alla proprie scelte. Anche di fronte alla possibilità di sbagliare. Attraverso il nome, il figlio si riconosce, si accoglie e comincia a confrontarsi con se stesso, a fare i conti con la propria identità e con la propria differenza. Nel nome deve scegliersi. In nome suo, e non di altri, risponderà di sé e delle proprie azioni.
Col nome gli viene dato un luogo in cui separarsi dalla madre, per cominciare a saper stare da solo con se stesso. Si, perché la solitudine più grande, diceva ancora il filosofo Levinas, è sperimentare l’assenza dei nomi propri. Invece, chi sa stare nel proprio nome, sarà pronto ad accogliere un altro nome. Solo chi sarà amato a partire dal proprio nome saprà amare un altro a partire dal suo nome. Lo custodirà e su di esso veglierà.
Per questo dovremmo insegnare ai nostri figli ad abitare i propri nomi. A saper starvi dentro con responsabilità e rispetto. Dobbiamo insegnare loro a sapersi prendere cura. A lottare perché i loro nomi, insieme a quello di tutti gli altri, non vengano mai calpestati. O, peggio ancora, cancellati. Né a calpestare nessun nome.
I nazisti, infatti, nel loro progetto di annichilimento delle proprie vittime avevano paura dei nomi propri. Per questo, come ci ricordano tantissimi testimoni, tra i quali Primo Levi, Etty Hillesum e Elie Wiesel, il programma di disumanizzazione e di totale annientamento prevedeva la cancellazione dei nomi dei deportati, i quali venivano sostituiti con un numero marchiato come si fa col bestiame.
E, allora, se non vogliamo vivere la morte dei nomi, ritorniamo a pronunciarli. Chiamiamo i nostri figli per nome. Chiamiamo il nostro partner per nome. Con timore e tremore. Ma anche con amore, perché l’amore si nutre di nomi.
Me lo ricorderò anche io in questi primi giorni di scuola, quando tornerò a chiamare i miei alunni semplicemente per nome.
di Michele Illiceto
COMMENTI