La vicenda dello stabilimento siderurgico ILVA di Taranto richiama per tanti aspetti, in specie quelli legati alla sorte degli operai, quella dello st
La vicenda dello stabilimento siderurgico ILVA di Taranto richiama per tanti aspetti, in specie quelli legati
alla sorte degli operai, quella dello stabilimento chimico di Manfredonia. Qui sono rievocati i riferimenti
salienti di una storia che si prefigura antesignana di situazioni analoghe andatesi sviluppando nel tempo.
Con la demolizione in corso di ultimazione delle due torri di prilling facenti parte dell’impianto di
produzione di urea, un fertilizzante per agricoltura, si riteneva che la lunga, travagliata, contestata vicenda
della bonifica dello stabilimento Enichem, erede di quello Anic, fosse avviata alla sua conclusione. Così
invece non è. E’ di qualche mese fa la “scoperta” di una discarica nascosta sotto un sarcofago di cemento
fatto passare per “pista di esercitazione per pompieri”. Una discarica non contemplata nelle carte dello
stabilimento e, pertanto, “dimenticata”. Dopo laboriose riunioni tenute anche al Ministero dell’Ambiente, la
Syndial succeduta a Enichem ma facente parte del Gruppo Eni, ha preso atto della nuova situazione ed ha
avviato le procedute tecniche e amministrative per bonificare anche quella discarica.
Quest’ultimo non è che un episodio significativamente emblematico della vicenda che ha caratterizzato la
seconda parte della vita dello stabilimento chimico di Macchia, in agro di Monte Sant’Angelo, ma a un tiro
di schioppo dall’abitato di Manfredonia che ha dovuto costantemente, nelle varie traversie connesse allo
stabilimento, prendere l’iniziativa per tutelare la salute e la sicurezza della popolazione.
Per tanti aspetti una vicenda antesignana di tante altre situazioni analoghe verificatesi o ancora in essere in
Italia, tanto da diventare un caso che ha fatto scuola per i provvedimenti tecnici e legislativi che si sono
dovuti adottare nel tempo. A cominciare dal 26 settembre 1976 allorquando esplose una colonna
dell’impianto di produzione urea nel quale passava, tra le altre sostanze impiegate, anche l’arsenico. Si
sprigionò una nuvola intrisa di quell’elemento chimico che si abbatté su larga parte del territorio. Anche
allora da parte della direzione dello stabilimento si cercò di minimizzare. Passarono alcuni giorni prima di
capire cosa era effettivamente accaduto e rendersi conto quali fossero i rischi ai quali il territorio e la
popolazione erano esposti.
Quello di nascondere le realtà che man mano si andavano producendo (e di incidenti di percorso ne sono
avvenuti parecchi) in uno stabilimento di indubbia valenza tecnologica avanzata, è sempre stato un
atteggiamento costante tenuto dai responsabili Enichem. Una condotta non sempre finalizzata ad evitare
allarmismi tant’è che si è sempre finito per ottenere l’effetto contrario. Tra gli altri eventi quello angosciante
e misterioso dei “sali sodici”, ovvero i fanghi residui della produzione del “caprolattame”, base per le fibre di
nylon, e delle navi che li trasportavano per scaricarle in mare dinanzi alle coste africane.
Il clou di tale politica a dir poco discutibile, si è verificato nell’autunno del 1988 con la nave Deep Sea
Carrier, la famigerata “nave dei veleni” perché carica di rifiuti tossici e nocivi che avrebbe dovuto
trasportare in Africa, ma che venne dirottata su Manfredonia per smaltire quel carico pericoloso nel forno
inceneritore di cui si era dotato lo stabilimento. Fu la rivolta del popolo manfredoniano e l’inizio della fine
dello stabilimento.
Una delle pagine più buie e tormentate della storia recente di Manfredonia e suo hinterland. Lo stabilimento
venne fermato. I circa 900 dipendenti diretti occupati, ai quali si aggiungevano più di altrettanti dell’indotto
disseminati tra una miriade di piccole imprese satelliti della fabbrica di Macchia, rimasti senza lavoro.
Per
Comunicato Stampa
Ufficio Stampa e Comunicazione – Comune di Manfredonia (FG)
Email: ufficiostampa@comune.manfredonia.fg.it – http://www.comune.manfredonia.fg.it
oltre un mese le vie e le piazze della città si trasformarono in un immenso teatro sul quale si fronteggiavano non sempre democraticamente, le opposte fazioni createsi fra quella parte di popolazione che era a favore della ripresa dell’attività dello stabilimento (“meglio morire di lavoro che di fame” era lo slogan delle maestranze Enichem) , e quell’altra parte che era decisamente contro al grido “cnevuai”, “vialenichem”.
Un enigma tanto atroce quanto denso di implicazioni di natura esistenziale che proprio in quell’epoca si andavano affacciando con insistenza e convinzione sospinta dall’ondata ambientalista sollecitata proprio “dall’arsenico Enichem di Manfredonia”, succeduto solo di qualche mese alla “diossina di Seveso”.
La conclusione è stata la dismissione dello stabilimento di Macchia. I contraccolpi economici e sociali sono stati devastanti. Una larga parte del territorio facente capo ai Comuni di Manfredonia, Monte Sant’Angelo e Mattinata subì gli effetti della perdita secca degli stipendi dei dipenderti e dei servizi che vennero pertanto a cessare. Per le maestranze fu l’inizio di un calvario duro e oscuro. Per i tanti in età lavorativa non era infatti facile trovare un’altra occupazione fuori del territorio beninteso, e per quelli in zona pensionamento accingersi a fare la trafila delle varie leggi cui aggrapparsi per arrivare al traguardo. Per loro una umiliazione e una passione indicibili. Anche la città subì in modo evidente la contrazione del circolante che si calcolava in circa sessanta miliardi di lire all’anno.
Nel frattempo iniziava l’altra battaglia per la bonifica del sito industriale occupato dall’Enichem. Una vera corsa ad ostacoli nella quale alle difficoltà tecniche (tante operazioni erano da inventare del tutto) si aggiungevano e si intrecciavano quelle procedurali che l’Enichem e la subentrata Syndial non hanno certo effettuato con la necessaria diligenza tanto che è dovuta intervenire anche la Magistratura.
Non sono mancate le iniziative giudiziarie proposte dinanzi alla Corte di Giustizia Europea che aprì una procedura di infrazione per i ritardi nella bonifica delle aree inquinate, e per vedere riconosciuto il diritto all’informazione richiesto da quaranta donne del Comitato ambientalista locale. Ma soprattutto la denuncia presentata nel 1996 da Nicola Lovecchio, un operaio Enichem morto l’anno successivo per neoplasia maligna polmonare, al quale si aggiunsero i familiari di altri 17 ex dipendenti Enichem anch’essi deceduti per malattia, era la tesi sostenuta, contratta sul posto di lavoro nello stabilimento. Imputati di omicidio colposo dieci ex dirigenti dello stabilimento Enichem di Manfredonia e due esperti di medicina del lavoro accusati, a vario titolo, di disastro colposo, 17 omicidi colposi, 5 casi di lesioni colpose e omissioni di controllo. Accuse che la Cassazione con sentenza emessa nel marzo scorso, ha cancellato assolvendo tutti gli imputati.
Alla profonda crisi in cui sono precipitati i territori che avevano beneficiato delle opportunità lavorative dello stabilimento Enichem, si è cercato di sopperire con la implementazione di una serie di attività produttive supportate dai fondi del Contratto d’Area. E’ l’ultima chance che quest’area che si apre sul golfo di Manfredonia ha avuto per risollevarsi. Cosa che è avvenuta solo parzialmente, il più fagocitato dalla dirompente e infinita recessione in atto. Ma questa è un’altra storia.
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